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Per una doppia moneta

Ripubblichiamo un articolo del 2004 che riteniamo di incredibile attualità nell’attuale contesto economico.

di Lanfranco Caminiti (10 Luglio 2004)

In un libro da poco pubblicato, l’economista Benjamin Cohen [University of California, Santa Barbara] si interroga sul «futuro del numero delle monete». Esiste una tesi «riduzionista» in merito: essa considera inevitabile la riduzione del numero delle monete, per la quale giocherebbero le economie di scala e l’erosione della sovranità nazionale connessa alla liberalizzazione della finanza. L’introduzione dell’euro, con la costruzione di un’area politico-monetaria enorme nonostante la «frammentazione» nazionalistica, ne sarebbe un vistoso esempio. Ma Cohen non è d’accordo: è vero che dal punto di vista della «domanda» [cioè, di chi la usa] si va verso una riduzione del numero delle monete, ma è altrettanto vero che chi la «offre», cioè gli Stati, sono interessati a avere una propria moneta, per la possibilità di una propria politica valutaria e monetaria. Come per le lingue ci saranno poche «lingue che contano», così per la moneta ci saranno poche «monete che contano» [dollaro, yen, euro], ma non mancheranno mille lingue e mille monete. [Benjamin Cohen, The Future of Money, Princeton University Press, 2004 – Fabrizio Galimberti, «Il Sole-24 Ore», 4 luglio 2004].

Lo scenario prefigurato da Cohen, della inestinguibile pluralità di monete nazionali e territoriali dentro una tendenza globale a pochi riferimenti monetari «forti», sembra quello di una moltiplicazione di regimi a doppia moneta. In ciascun territorio, alla moneta nazionale si affiancherebbe una moneta transnazionale di riferimento. Un regime, per fare un esempio semplice anche se non esatto, simile a quello vissuto in Italia durante e fino all’introduzione dell’euro come moneta unica con la contemporanea circolazione della lira. Dal 1° gennaio 1999 l’euro era la valuta legale dei Paesi aderenti all’Unione monetaria europea e sostituiva le singole valute nazionali secondo i tassi irrevocabili di conversione fissati dalle istituzioni comunitarie. Fino al 31 dicembre 2001 fu previsto un periodo transitorio durante il quale le singole valute nazionali restavano in vigore. Durante il periodo transitorio, l’euro poteva essere utilizzato solo come moneta scritturale, non essendo ammessa circolazione di monete e banconote. Al termine del periodo transitorio, le singole valute nazionali cessarono di avere corso legale, salva la possibilità, fino al 28 febbraio 2002 per la lira, di continuare ad utilizzare le monete e le banconote in circolazione (periodo di doppia circolazione). In realtà, a me sembra che un regime di doppia moneta sia quello a cui siamo già sottoposti tutti, non certo nel senso della circolazione ma in quello del valore, e dei prezzi. La invisibilità della presenza di una doppia circolazione non indebolisce certo il suo carattere operativo e cogente.

C’è stato un altro momento storico abbastanza recente in cui l’Italia ha vissuto una doppia [e tripla e quadrupla] circolazione monetaria. Nel 1943, in preparazione dello sbarco in Sicilia, gli Alleati costituirono l’AMGOT [Allied Government Occupied Territory]. Tra le varie «divisioni» a cui spettava governare il territorio, fu istituita quella finanziaria, la Financial. Le autorità alleate sapevano che nell’isola ridotta allo stremo anche le banche avevano esaurito la scorta di banconote. Fu perciò istituita una banca militare, l’Allied Military Financial Agency [AMFA} con il compito di emettere cartamoneta destinata alle spese correnti e al soldo dei militari. In tal modo, prima ancora dello sbarco, incominciarono a circolare dollari con il sigillo giallo, per distinguerli da quelli ufficiali con il sigillo blu. C’era pure uno scambio ufficiale con la lira: 100 il dollaro. Al mercato libero, il dollaro raddoppiava. Verso la fine di giugno si aggiunsero le Allied military liras, che sarebbero diventate le «AM-lire» e cominciarono a circolare sin dallo sbarco in luglio. Le Allied Military Line Currency della serie 1943 furono stampate negli Usa da due differenti tipografie, la Bureau of Engraving and Printing [BEP] e la Forbes Lithograph Corporation [FLC]. La differenza è valida solo per l’emissione del 1943. I biglietti si differenziano perché quelli della BEP sono privi di indicazioni dello stampatore, mentre quelli della FLC hanno una piccola «f» nel ricciolo inferiore destro sopra al valore. Una enorme liquidità venne immessa sul mercato con effetti inflattivi. I tagli erano da 1, 2, 5, 10, 50, 100, 500 e 1.000. Sul retro, ogni biglietto pubblicizzava le quattro libertà americane: Freedom of Speech [libertà di parola], of Religion [di fede], from Want [dal bisogno], from Fear [dalla paura]. Contemporaneamente alle AM-lire, gli inglesi fecero un analogo tentativo di emettere moneta di occupazione, pence, scellino e sterlina della British Military Authority, che però ebbero scarsa fortuna per la difficoltà che gli italiani incontrano a conteggiare una moneta suddivisa su base non decimale. I prezzi si infiammarono. A ridosso dello sbarco le banconote furono poi stampate in Tunisia, ma con la conquista di Palermo le autorità statunitensi ebbero a disposizione il Banco di Sicilia, del quale già nei preparativi dell’invasione veniva prefigurato l’impiego come Istituto di emissione. Trasformato in Banca centrale, il Banco di Sicilia guadagnò un potere enorme. Le AM-lire passarono per tutte le mani degli italiani fra il 1943 e il ’45. Quanto meno, il Sud ne fu invaso [Malaparte ne La pelle, scrive che amministravano «i cuori e i corpi»] e progressivamente i territori «liberati», mentre nella Repubblica Sociale continuavano a circolare le lire. Nel 1944 intanto la Banca d’Italia stampò la cosiddetta «serie della Luogotenenza», in cui c’erano anche i biglietti da 500 e 1.000 lire, mai messi in circolazione. Le AM-lire furono dichiarate fuori corso soltanto nel 1950, con la legge del 5 gennaio n. 3 del ministro del Tesoro. [Alfio Caruso, Arrivano i nostri, 2004, Longanesi – http://www.infol.it/monete/money.htm].

È difficile immaginare oggi un controllo totale della massa monetaria, per via della velocità dei suoi movimenti, della globalizzazione, in breve dell’emergere di un suo carattere selvaggio. C’è un carattere permanente, enduring, di «occupazione» nella selvatichezza dei movimenti della moneta finanziaria. Si attenua fortemente la differenza tra mercati interni ed esterni [almeno come li intendeva la teoria classica del ‘commercio estero’], ma si ripropone, e con approfondimento contraddittorio, la questione dei prezzi interni ed esteri, legati come sono i primi alla produzione materiale di beni e i secondi ai movimenti speculativi del plusdenaro [o del capitale finanziario]. I governi reagiscono ai movimenti monetari o tendono a impedirli, ma non possono sempre prevederli né sistematizzarli. La moneta perde vieppiù il suo carattere di rappresentazione di quantità verificate o verificabili [M1], caratterizzandosi come segno di accumulazione, e quindi di speculazione [di falsificazione] [M2, M2 estesa, derivati]. Ovvero s’è già creata una doppia moneta, una come regolatrice dei prezzi ed una come forma della ricchezza. Non esiste quindi una sola serie di valori di equilibrio [parziale o aggregato]. Esistono piuttosto serie diverse di prezzi per serie diverse di quantità [di beni, valori], e quindi l’equilibrio non è più possibile dal lato della produzione e dello scambio, e viene imposto forzosamente dal lato della circolazione [moneta]. Dai conflitti e dagli aggiustamenti tra queste due forme di moneta dipendono la maggior parte degli eventi economici che attraversano la nostra giornata lavorativa [in generale possiamo dire che la maggior parte del lavoro è pagato con moneta interna, più vile, mentre il plusdenaro – la ricchezza – si muove sulla moneta esterna]. La somma dei prezzi [con riferimento a merci e partite] d’ogni nazione è ormai inferiore rispetto la massa monetaria in movimento [in entrata e uscita] e ne mostra in alcuni casi il segno di dipendenza reale dal governo mondiale della moneta. Eppure i prezzi [e le imposte dello Stato] aumentano all’interno, anche se la massa monetaria interna viene tenuta sotto controllo, e anzi, a massa monetaria costante, l’aumento dei prezzi, senza corrispondente aumento di salari e redditi, diventa motore della crescita dei profitti e di una forte ridistribuzione della ricchezza in maniera polarizzata, attraverso anche la distruzione progressiva del risparmio [di quella parte di plusdenaro socializzatasi]. La vanificazione del risparmio [del potere del risparmio] dei lavoratori è la faccia complementare della lotta al potere dei salari. Alla stabilità della moneta come circolante interno non corrisponde la stabilità dei prezzi, in particolare di quelli delle merci immateriali che si formano su un mercato globale [e ciò rende fumoso ogni controllo sui prezzi che può essere solo interno]. La lotta all’inflazione [il controllo del deficit] più che recessione e disoccupazione provoca quindi una riappropriazione di plusdenaro da parte dei maggiori detentori d’esso. [Lavori e merci, prezzi e monete, «deriveapprodi» 12-13, 1996]

Qual è, in breve, la mia proposta? La reintroduzione della lira come «moneta nazionale», ma solo come moneta della contabilità nazionale. Non come moneta circolante. Per il circolante va bene, va benissimo l’euro, per la sua «qualità» di moneta transnazionale, di moneta della cittadinanza europea. È uno straordinario vantaggio per la mobilità dei cittadini e dei lavoratori europei quello di potersi trovare «a casa» dal punto di vista dell’acquisto di beni e di scambio in qualunque luogo europeo. Dal punto di vista della domanda l’euro funziona. Dal punto di vista «politico» l’euro funziona, e probabilmente funzionerebbe di più ancora se vissuto come un circolante dei cittadini, sottratto cioè alla BCE, al «controllo» e al potere della Banca europea centrale e dei suoi gnomi. Si dovrebbe cioè proprio invertire la storia del circolante: per i prezzi interni [e in questo senso, interna può essere considerata l’Europa come spazio politico e di diritti] ci occorre una moneta forte, che tenda a stabilizzare e equilibrare la serie dei valori e dei prezzi e quindi anche il potere d’acquisto dei salari, sottraendoli alle manovre speculative dei prezzi esteri, cioè del plusdenaro. Mentre invece si potrebbe reintrodurre la lira per i rapporti commerciali che l’Italia tiene e terrebbe con il resto del mondo [a cominciare dalle nazioni europee], con il resto delle monete. La lira insomma dovrebbe acquisire fino in fondo una sua dimensione «scritturale»: potremmo comprare e vendere in lire i nostri prodotti: la nostra bilancia commerciale se ne avvantaggerebbe. La lira dovrebbe fluttuare, a seconda delle convenienze. Dovrebbe seguire cioè una sua cambiabilità con lo stesso euro come una qualunque altra moneta e non in maniera «fissa». Nella nostra vita quotidiana questa fluttuazione non avrebbe alcun senso, e solo nella nostra vita «monetaria» acquisirebbe significato. I nostri risparmi dovrebbero essere in euro, le nostre tasse, e insomma non dovrebbe cambiare proprio nulla dal punto di vista della «contabilità sociale». Solo sui prezzi «esteri» avrebbe valore la lira, sull’acquisto e la vendita di beni, servizi, valori. Le obbligazioni e i titoli di Stato dovrebbero essere in lire. I loro rendimenti seguirebbero una doppia oscillazione [quello che, in parte, succedeva con il serpente monetario – il currency snake – dal 1972 prima dell’introduzione dello SME, il Sistema monetario europeo voluto da Francia e Germania nel 1979]: una tra la moneta «interna» [l’euro] e quella «contabile» [la lira], e una tra la lira e le monete del mondo. Io credo che potremmo ricavarne solo vantaggi. E anche i conti pubblici dovrebbero essere in lire. Forse verrà il mal di testa ai ragionieri dello Stato, ma sono pagati apposta. Se uno pensa che i «cervelloni» del Tesoro hanno partorito come proposta «creativa» quella di introdurre il biglietto da un euro invece della moneta di conio – con plauso di non pochi politici – certo prende lo sconforto, ma. Si potrebbe finanziare un ciclo virtuoso di spesa pubblica tutta in lire. E infine, penso che pure il mercato azionario, e i suoi titoli, dovrebbe svolgersi in lire. Anche ai broker verrà il mal di testa, ma pure loro sono pagati apposta. Decidere l’introduzione di una doppia moneta, ripristinare e aggiornare la lira, non contravverrebbe alcun vincolo politico europeo e non tornerebbe indietro la pax monetaria dell’euro. Per un’economia dai caratteri volatili come quella italiana è troppo penalizzante la rinuncia a una propria moneta nazionale. Non siamo la Germania e non siamo la Francia. D’altronde, la Gran Bretagna continua a mantenere la sterlina e a stare nella comunità europea. Un po’ a modo proprio, s’intende.